I sette colombini

Moderatore: demon black

I sette colombini

Messaggiodi demon black » 19/09/2010, 9:38

FIABA


C'era una volta nel paese di Arzano una buona donna, che ogni anno partoriva un figlio maschio, e ne aveva già sette, così belli che quando si mettevano in fila sembravano le canne del flauto di Pan. Quando anche il settimo cominciò a bere il vino, quella donna rimase incinta per l'ottava volta, e i fratelli le dissero:
"Devi sapere, cara mamma, che se dopo tanti maschi non fai una femmina noi siamo proprio decisi a lasciare questa casa e a viaggiare per il mondo, soli e spersi".
La mamma, sentendoli parlare così, pregava il Cielo che levasse questa idea dalla loro testa, per non levare a lei i suoi sette tesori.
Quando venne il giorno del parto, i figli dissero:
"Noi ora ce ne andiamo su quella collina là davanti; se ti nasce un maschio metti sulla finestra una penna e un calamaio, se fai una femmina mettici un cucchiaio e una conocchia, perché se vedremo il segno della femmina torneremo a casa e resteremo accanto a te tutta la vita, ma se vediamo il segno del maschio ti puoi anche dimenticare di noi, perché non saremo più figli di nessuno".
Poco dopo, come il Cielo volle, la donna partorì una bella femminuccia, e disse alla levatrice di darne il segno ai fratelli, ma quella fu così rintronata e distratta che ci mise penna e calamaio.
Avendo visto questo segno i sette fratelli si misero per via e camminarono tanto che arrivarono dopo tre anni in un bosco fitto senza sentieri, dentro il quale c'era la casa di un orco. All'orco mentre era addormentato erano stati rubati gli occhi da una femmina, e per questo era tanto nemico di questo sesso che quante gliene capitavano, tante ne mangiava.
I fratelli, stanchi per il lungo cammino e indeboliti per la fame, gli chiesero se per carità poteva dar loro un boccone di pane. L'orco rispose che gli avrebbe dato anche da vivere se volevano servirlo, e non avrebbero avuto altro da fare che guidarlo un giorno per ciascuno, portandolo come un cagnolino. Sentendo questo ai giovani sembrò di aver trovato mamma e babbo, e dopo essersi messi d'accordo restarono a servizio dall'orco, che avendo imparato a mente i loro nomi ora chiamava Giannino, ora Cecco, ora Pino, ora Nuccio, ora Peppe, ora Ciccio e ora Tino, perché questi erano i nomi dei fratelli, e li manteneva e li faceva vivere.
Dopo che era passato molto tempo la loro sorella era cresciuta, e avendo sentito dire che i suoi sette fratelli per una distrazione della levatrice erano andati in giro per il mondo e non se ne era saputo più nulla, sentì un desiderio irresistibile di andarli a cercare, e tanto fece e tanto disse che la mamma, confusa da tutte le sue preghiere, la vestì da pellegrina e la lasciò andare.



E lei, cammina e cammina, domandando sempre a tutti quelli che incontrava se avevano visto sette fratelli, viaggiò in tanti paesi che alla fine in una locanda le dissero di sì, e lei si fece insegnare la strada per quel bosco. Così una mattina arrivò alla casa dell'orco, dove si fece riconoscere e abbracciò i suoi fratelli, che maledirono il calamaio e la penna che erano stati causa della loro disgrazia. E dopo averle fatto tante carezze, le raccomandarono di non uscire mai dalla loro camera, perché non la vedesse l'orco, e oltre a questo dissero:
"Sta' ben attenta, nella camera c'è una gatta, e tutte le volte che avrai in mano una cosa da mangiare devi dargliene mezza, se non vuoi che ti combini un brutto guaio".
Nina, così si chiamava la sorella, si impresse nel cuore questi consigli, e quello che aveva lo divideva con la gatta come si fa con una buona amica, tagliando tutto in due parti uguali e dicendo:

questo a me,
questo a te,
questo alla
figlia del re,

le dava la sua parte fino all'ultimo bocconcino.
Dopo un po' di tempo successe che i fratelli andarono a caccia per conto dell'orco, lasciandole un panierino di ceci da cuocere. Disgraziatamente mentre li sceglieva ci trovò una nocciola, che causò la fine della sua pace, perché appena se la mise in bocca senza darne mezza alla gatta, quella per dispetto corse sul camino e fece tanta pipì sul fuoco che lo spense. Nina vedendo cos'era successo non sapeva come fare, così uscì dalla camera, entrò nell'appartamento dell'orco e chiese un po' di fuoco.
L'orco, appena sentì la voce di una femmina, gridò:
"Vieni vieni, che te lo do io! aspetta un po' che hai trovato proprio quello che ti ci vuole!", e così dicendo prese l'affilacoltelli e cominciò ad affilarsi le zanne.
Appena Nina vide questo terribile spettacolo, raccolse un tizzone ardente, scappò nella sua stanza e si barricò dietro la porta, puntellandola con pezzi di legno, seggiole, comodini, cassette, pietre e tutto quello che trovava.
L'orco, appena si fu affilato i denti, corse alla sua porta e, trovandola chiusa, cominciò a prenderla a calci per sfondarla. A questo fracasso accorsero i fratelli e videro questo macello con l'orco che li accusava di essere sette traditori, perché quella stanza era diventata il rifugio delle sue nemiche mortali. Giannino, che era il maggiore e aveva più cervello degli altri, visto che la cosa si metteva male, disse all'orco:
"Noi non ne sappiamo nulla di questa faccenda, può darsi che questa maledetta femmina sia entrata per caso nella stanza mentre noi eravamo a caccia. Ma siccome si è barricata dentro, vieni con me, che ti porto in un posto da dove possiamo passare per saltarle addosso senza che si possa difendere".
Così, preso per mano l'orco, lo portò sull'orlo di un fosso molto profondo, e dandogli una spinta lo fece cascare di sotto, poi i sette fratelli presero una pala che era lì vicino e lo coprirono di terra. Allora si fecero aprire da Nina e la sgridarono bene bene per l'errore che aveva fatto e il pericolo in cui si era messa, dicendo che in futuro doveva avere più cervello e stare ben attenta a non cogliere mai nulla intorno a quel posto dov'era sotterrato l'orco, sennò si sarebbero trasformati in colombini.
"Il Cielo non voglia!", disse Nina, "che io vi faccia tanto male!".
E così, preso possesso della casa e di tutta la roba dell'orco, vivevano allegramente aspettando che passasse l'inverno, perché quando la terra sarebbe tornata a fiorire avrebbero potuto finalmente mettersi in cammino per tornare ad Arzano.
Dopo un po' di tempo successe che, mentre i fratelli erano andati in montagna a far legna per difendersi dal freddo che aumentava di giorno in giorno, arrivò in quel bosco un vecchio pellegrino che piangeva a vita tagliata, perché un gatto mammone che aveva svegliato per sbaglio gli aveva tirato in capo una pigna. Nina sentendo il pianto uscì di casa, e avendo pietà del povero pellegrino andò a cogliere una bella rama di rosmarino da un cespuglio che era cresciuto sulla fossa dell'orco, e col pane biascicato e il sale gli preparò un impiastro per il bernoccolo, poi gli diede qualcosa da mangiare e lo rimandò per la sua strada.
Ma quando apparecchiava la tavola per i suoi fratelli, vide arrivare sette colombini, che dissero:
"Oh, se ti si fossero spezzate le mani prima che cogliessi quel rosmarino maledetto! O principio di tutte le nostre disgrazie, che ci fai volare sulla marina! Hai perso il cervello per trascurare il nostro avvertimento? Eccoci trasformati in uccelli, soggetti agli artigli del falco, dello sparviero e dell'astore, eccoci compagni di capinere, pivieri, cardellini, cinciallegre, fringuelli, pigliamosche, picchi, quaglie, lucherini, rigogoli e pavoncelle! L'hai fatta bella! Ora torniamo ad Arzano, per finire nelle reti e nelle panie dei cacciatori! Per accomodare il capo a un pellegrino hai disfatto i corpi dei tuoi sette fratelli, e non c'è nessun modo per rompere questo incantesimo, a meno che tu non trovi la mamma del Tempo, che ti insegni il modo per farci uscire da questa disperazione".
Nina aveva la pelle d'oca e le si erano rizzati tutti i peli per l'errore che aveva fatto, chiese perdono ai fratelli e promise che sarebbe andata per tutto il mondo finché non avesse trovato dove stava questa vecchia. E pregandoli di restare sempre in casa perché non incappassero in qualche disgrazia fino a che non tornava, si mise per via, e cammina cammina andava senza stancarsi mai, perché nonostante andasse sempre a piedi il desiderio di salvare i suoi fratelli le faceva fare più strada che se avesse avuto un cavallo.



Finalmente arrivò a una spiaggia, dove le onde battevano incessantemente gli scogli, vide una grande balena, che le domandò:
"Bella fanciulla, che stai facendo?".
Nina rispose: "Sto cercando la casa della mamma del Tempo".
"Sai come fare?" le disse la balena, "va' sempre a diritto per questa marina, e al primo fiume che trovi risali il suo corso, poi troverai chi ti indicherà il cammino; ma ti prego, quando incontrerai questa buona vecchia chiedile per piacere da parte mia se mi insegna un rimedio per nuotare tranquilla senza sbattere sugli scogli e senza finire tante volte sulla spiaggia".
"Lascia fare a me", disse Nina, e ringraziandola per la via che le aveva indicato si mise a camminare di buon passo su quella spiaggia, e dopo aver tanto camminato arrivò al fiume che si buttava nel mare e cominciò a risalirlo. Giunse in una bella campagna verdeggiante e trapunta di fiori, dove trovò un topo che le chiese:
"Dove vai sola sola, bella fanciulla?".
Nina rispose: "Cerco la mamma del Tempo".
"Hai una strada lunghissima da fare," disse allora il topo, "ma non ti perdere d'animo, tutto finisce prima o poi: cammina pure verso quelle montagne, che sovrastano questa campagna con le loro altezze, e avrai migliori indicazioni per la via. Ma fammi un piacere: quando avrai raggiunto quello che cerchi, fatti dire da questa buona vecchietta che rimedio possiamo trovare noi topi per liberarci dalla tirannia del gatto, e poi chiedimi quello che vuoi, perché ti obbedirò a puntino".
Nina, dopo aver promesso di accontentarlo, s'incamminò verso le montagne, che per quanto sembrassero vicine non si raggiungevano mai, eppure in qualche modo riuscì ad arrivarci, e si sedette su una pietra perché era stanchissima. Allora vide un esercito di formiche che trasportavano una grande provvista di grano.
Una formica chiese a Nina: "Chi sei? e dove vai?", e Nina, che era gentile con tutti, le disse:
"Io sono una sfortunata fanciulla, e per una cosa che mi sta molto a cuore cerco la casa della mamma del Tempo".
"Cammina, va' più avanti," disse la formica, "che dove le montagne si aprono in una vasta pianura te ne sarà data notizia. Ma fammi un gran piacere, vedi se ti riesce sapere da questa vecchia cosa possiamo fare noi formiche per vivere un po' di più, perché mi pare una gran pazzia della Natura farci accumulare tante provviste di roba da mangiare per una vita così corta, che quando si potrebbe vivere bene si spenge come una candela al primo soffio di vento".
"Sta' tranquilla," disse Nina, "che voglio restituirti il piacere che mi hai fatto", e cammina cammina attraversò quelle montagne, poi si trovò in una bella pianura, e dopo aver fatto tanta strada trovò una quercia immensa, testimone delle epoche antiche, quando forniva la dolce ricompensa della gloria, che raramente si ottiene in questi tristi tempi.
La quercia con labbra di scorza e lingua di midollo chiese a Nina: "Dove vai così affannata, fanciulla mia? vieni sotto la mia ombra e riposati!".
E lei dicendole 'mille grazie' si scusò perché andava di fretta a trovare la mamma del Tempo.
Sentendo questo la quercia le disse: "Ne sei tanto poco lontana che prima di aver camminato una giornata intera vedrai su una montagna una casa, dove troverai quello che cerchi; ma se tu sei gentile quanto sei bella, cerca di sapere cosa potrei fare per recuperare l'onore perduto, perché da corona per i grandi uomini sono ridotta a cibo per i porci".
"Lascia questo pensiero a Nina," rispose lei, "che cercherò di accontentarti". E dopo aver detto queste parole partì, e camminando senza mai fermarsi a riposare arrivò ai piedi di una ripida montagna, che con la cima andava a toccare le nuvole, dove trovò un vecchietto che, stanco per il cammino, si era buttato su un mucchio di fieno. E lui, vedendo Nina, riconobbe subito la fanciulla che gli aveva medicato il bernoccolo, e dopo aver saputo cosa stava cercando, le disse che lui era venuto a pagare il suo debito al Tempo, che è un tiranno e domina tutte le cose del mondo, e da tutti riscuote una tassa, specialmente dagli uomini vecchi come lui. E siccome Nina gli aveva fatto un piacere, voleva renderglielo moltiplicato per cento, dandole qualche buon consiglio su come salire sulla cima, dove gli dispiaceva non poterla accompagnare, perché la sua età, più adatta per scendere che per salire, lo costringeva a restare alla falde della montagna per fare i conti con i segretari del tempo, che sono le vicissitudini, i dispiaceri e i dolori della vita, e pagare il debito alla Natura.
Allora le disse: "Ora ascoltami bene, bella fanciulla mia senza peccato, devi sapere come e in che modo sulla cima di quella montagna troverai un rudere di casa, che non si può sapere quando fu costruita, larghe crepe traversano le sue mura, le fondamenta sono marce, le porte divorate dai tarli, i mobili ammuffiti, tutto è consumato e distrutto: di qua vedi colonne spezzate, di là statue mutilate, l'unica cosa intera è uno stemma scolpito sul portone, che rappresenta un serpente che si morde la coda, un cervo, un corvo e una fenice, che come sai è quell'uccello meraviglioso che rinasce dalle sue ceneri. Appena entrata vedrai sparse per terra lime sorde, seghe, falci, cesoie e cento e cento pentolini di cenere, sui quali sono scritti i nomi come sui vasi degli speziali, dove si legge: Corinto, Sagunto, Cartagine, Troia e mille altri nomi di città morte e scomparse, il Tempo ne conserva le ceneri per ricordo delle sue imprese. Ora, appena sei vicino a questa casa nasconditi da qualche parte finché non esce il Tempo, e appena lui è uscito tu entri. Là troverai una donna così vecchia che con la barba tocca terra e con la gobba arriva al cielo, i capelli come la coda del cavallo storno le coprono i talloni, la faccia sembra un collare pieghettato e inteccherito per l'amido degli anni; sta sempre seduta su un orologio infilato nel muro, e siccome ha le palpebre tanto grandi e pesanti che le chiudono gli occhi, non ti potrà vedere. Appena sei entrata leva i contrappesi all'orologio e poi chiama la vecchia e pregala di soddisfare le tue richieste: lei si metterà a chiamare suo figlio perché venga subito a mangiarti, ma siccome all'orologio sotto di lei mancano i contrappesi, il Tempo non potrà camminare, e così sarà costretta a darti quello che chiedi. Ma non credere a nessun giuramento che ti farà, finché non giura per le ali di suo figlio: allora credile e fa' quello che ti dice, che sarai contenta".
Dette queste parole il poverello si dissolse come un corpo in un sepolcro quando vede la luce dell'aria. Nina prese le sue ceneri e dopo averle bagnate di lacrime scavò una buchina e le sotterrò, pregando che il Cielo desse pace e riposo all'anima del pellegrino. E salita sulla montagna, che le fece venire il fiatone, aspettò che uscisse il Tempo, che era un vecchio con una lunghissima barba, indossava un vecchissimo mantello tutto pieno di cartellini attaccati col nome di questo e di quello, aveva grandi ali e correva così veloce che Nina lo perse subito di vista.



Entrata nella casa della mamma, rabbrividì per la paura vedendo quella brutta pellaccia, e presi subito i contrappesi, disse alla vecchia quello che desiderava. Quella fece un urlo e chiamò il figlio, ma Nina le disse:
"Puoi anche battere il capo nel muro, perché di certo non vedrai tuo figlio finché io tengo in mano questi contrappesi!".
La vecchia, vedendosi sbarrata la strada, cominciò a lusingarla, dicendole:
"Lasciali andare, tesoro mio, non fermare la corsa di mio figlio, cosa che nessun uomo vivente ha mai fatto da che mondo è mondo! Lasciali andare, che Dio ti protegga, e io ti prometto per l'acquaforte di mio figlio, con la quale corrode tutte le cose, che non ti farò del male".
"Non perdere il tuo tempo," le rispose Nina, "devi dire ben altro se vuoi che li lasci andare!".
"Ti giuro per quei denti che rosicchiano tutte le cose mortali, che ti farò sapere quanto desideri".
"Non mi fai né caldo né freddo," disse Nina, "perché so che tu mi prendi in giro!".
E la vecchia: "E allora sia! Io ti giuro per quelle ali che volano dappertutto che ti voglio accontentare più di quanto ti immagini!".
Allora Nina, lasciati i contrappesi, baciò la mano alla vecchia, che sapeva di muffa e puzzava di rancido, e lei, vedendo la sua garbata cortesia, le disse:
"Nasconditi dietro a quella porta, che appena sarà venuto il Tempo mi farò dire quello che vuoi sapere. E appena torna a uscire, perché lui non sta mai fermo in un posto, puoi svignartela: ma non ti far sentire, perché lui è così vorace che mangia anche i suoi figli, e quando non resta più nulla divora se stesso, e poi torna a germogliare".
Appena Nina si fu nascosta come le aveva detto la vecchia, ecco arrivare il Tempo, che svelto svelto, veloce e lieve rosicchiò tutto quello che gli capitava sottomano, perfino la calce sui muri, e quando voleva partire la mamma gli disse tutto quello che aveva sentito da Nina, pregandolo, per il latte che gli aveva dato, di rispondere una per una alle domande che gli aveva posto.
E il figlio dopo mille preghiere le rispose:
"All'albero si può rispondere che non potrà mai essere caro alle genti, finché tiene sotterrato un tesoro tra le sue radici; al topo che non saranno mai al sicuro dal gatto, se non gli attaccano un campanello alla gamba per sentirlo quando viene; alla formica che camperanno fino a cent'anni, se possono evitare di volare, perché quando la formica vuol morire mette le ali; alla balena che sia gentile e si tenga il pesce pilota come amico, che le farà da guida e non la manderà di traverso; e ai colombini, che quando si annideranno sulla colonna dell'abbondanza ritroveranno la loro forma umana".
Dopo aver detto queste parole, il Tempo riprese la sua solita corsa; Nina, dopo aver salutato la vecchia, scese dalla montagna, e giunse in piano nello stesso momento in cui arrivavano i sette colombini seguendo le sue tracce, e loro, stanchi per il lungo volo, andarono tutti a posarsi sulle corna di un bue che era morto.



Appena l'ebbero toccato tornarono i giovani belli che erano prima, e meravigliati da quello che era successo ascoltarono la risposta del Tempo, e capirono che il corno, come simbolo della capra, era la cornucopia, e quindi la colonna dell'abbondanza; poi, dopo aver fatto tante feste a Nina, si avviarono tutti insieme per lo stesso cammino che aveva fatto lei.
Quando trovarono la quercia le riferirono la risposta del Tempo, e la quercia li pregò di toglierle il tesoro di sotto, perché era quella la causa che aveva fatto perdere la buona reputazione alla ghianda.
I sette fratelli, presa una zappa in mezzo a un orto, scavarono tanto finché trovarono una grossa giara ricolma di monete d'oro, che divisero in otto sacchetti per poterle portare comodamente.
Ma dopo un po' erano tanto stanchi per il viaggio e per il peso che si misero a dormire accanto a una siepe, da dove passarono dei ladroni, che vedendo i poveri giovani addormentati col capo sui sacchetti di monete d'oro, dopo averli legati mani e piedi a degli alberi si presero il tesoro, lasciandoli a disperarsi, non solo per la ricchezza, che appena trovata era sfuggita dalle loro mani, ma per la loro vita, perché, senza speranza di aiuto, correvano il rischio di morire di fame o di sfamare qualche animale feroce. Mentre si lamentavano della loro maledetta sfortuna, ecco che arrivò il topo, che dopo aver sentito la risposta del Tempo, per ricompensarli del servizio che gli avevano reso rosicchiò le funi con le quali erano legati e li rimise in libertà.
Dopo aver camminato per un bel pezzo, trovarono la formica lungo la via, che dopo aver sentito il consiglio del Tempo chiese a Nina perché era così triste e abbattuta. Quando la fanciulla le ebbe raccontato della disgrazia che era successa e del brutto incontro con i ladri, la formica disse:
"Aspettate, che mi capita proprio l'occasione buona per ricambiare il piacere che ho ricevuto! Sappiate dunque che, mentre portavo un carico di grano sottoterra, ho visto un posto dove questi maledetti birbanti rimpiattano la loro refurtiva, perché sotto a una vecchia costruzione hanno fatto dei nascondigli dove stipano tutte le cose rubate, e ora che se ne sono andati a combinare qualche altro imbroglio io voglio accompagnarvi là e farvi vedere il posto, perché possiate recuperare quello che è vostro".
Dette queste parole si mise in cammino dirigendosi verso alcune case diroccate e mostrò ai sette fratelli la bocca di un fosso, dove si calò dentro Giannino, che era più coraggioso degli altri, e trovò tutte le monete che gli erano state rubate, le riprese e si misero a camminare verso la marina.
Là trovarono la balena, le riferirono le parole del Tempo, che è padre dei consigli, e mentre raccontavano del loro viaggio e di tutto quello che era successo, ecco che videro spuntare i ladroni armati fino ai denti, che avevano seguito le loro impronte.
Allora dissero:
"Ah, poveri noi! Questa è la volta che di noi si perde anche la memoria, perché ora arrivano i malandrini, ci acchiappano e ci tagliano a pezzetti!".
"Non dubitate," disse la balena, "che sono capace di salvarvi anche dal fuoco per ricompensarvi di tutto l'affetto che mi avete dimostrato! salite sulla mia schiena, vi porterò subito in un posto sicuro".
I poveri fratelli, vedendosi i nemici alle spalle e l'acqua alla gola, salirono sulla balena, che prendendo il largo dagli scogli li portò davanti a Napoli, dove, non azzardandosi a sbarcarli perché il mare era piuttosto basso, disse:
"Dove volete che vi lasci, lungo questa costiera Amalfitana?".
E Giannino rispose: "Vedi se puoi fare in un altro modo, bel pesciolone mio, perché a Massa si dice 'saluta e passa', a Sorrento 'stringi i denti', a Vico 'porta il pane con tico', a Castellammare 'né amico né compare'.
E la balena per accontentarlo si rigirò e si diresse allo Scoglio del Sale, dove li lasciò, e dalla prima barca di pescatori che passava si fecero portare a terra, e tornati al loro paese salvi, belli e ricchi, colmando di gioia la mamma e il babbo si godettero felicemente la vita, per merito di Nina, che ricordava sempre quelle antiche parole:

quando puoi, fa' il bene, e scordalo.



di Gianbattista Basile
Un giorno senza un sorriso...è un giorno perso (Charlie Chaplin)
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