«MaddaLena, facciamo che tu mi restituisci la lettera e io ti do questo giochino, vuoi?» Thias rivolse un sorriso condiscendente alla sorellina. Era proprio una bambolina. Era piccola piccola, con grandissimi occhi blu e lisci capelli castani. Somigliava molto a Thias, nonostante lui avesse già undici Risvegli, e due begli occhi neri come il carbone.

  

Nico era un bel bambino dai capelli color del grano, decisamente un piccolo elfo, molto simile alla mamma GiadaEli.

  

GiadaEli era immersa in amare riflessioni mentre percorreva la via principale del villaggio diretta verso casa. Sotto il mantello scuro portava una borsa di pelle colma di cibarie che si era procurata al mercato quella mattina. I lunghi capelli chiari le ricadevano sulle spalle, incorniciando un viso pallido e stanco. Dalla sera precedente non aveva avuto un attimo di pace.

  

Benché fossero tutti lì ad attenderla, fu AnnaRo a correrle incontro per prima. Tra le sue braccia, c’era il piccolo Dade, profondamente addormentato.  

 

«È stato un Torac» sibilò a denti stretti il ragazzo magro e nervoso che fino ad allora era rimasto silenzioso, seduto in disparte. Luca amava AnnaRo alla follia. Aveva speso la giovinezza nel tentativo di conquistarne il cuore, ed ora che erano finalmente sposi e che il loro amore era stato coronato dalla nascita del piccolo Dade, tutta questa vicenda lo spaventava ed irritava al tempo stesso.  

 

«Non è che dicono» lo rimbeccò AnnaRo, negli occhi verdi una scintilla di irritazione. «È così!» sentenziò decisa, scostandosi i capelli chiari dal viso con un gesto nervoso e tornando a guardare GiadaEli.

 

La sapienza materna era stata trasmessa al fratello di AnnaRo, il giovane Enmarcus, mentre della sorella minore, GiuLia, che aveva solo tredici Risvegli, ancora non si intuivano chiaramente le potenzialità.

  

Era affezionato a Marcus, un brav’uomo con il sangue di qualche antenato nano nelle vene. Buon sangue decisamente, che l’aveva reso forte come la roccia e buono come il pane. Un’eredità che solo le spalle robuste e i lineamenti decisi sotto i folti capelli scuri testimoniavano ancora. In Teo e nel figlio minore, Angi. Niente a che vedere con il biondissimo Fra, sottile e sinuoso come la madre, la bella elfa DiaNora. E Fra con i suoi diciotto Risvegli appena festeggiati aveva tutto dell’elfo: dallo sguardo acuto e profondo alla mente sveglia e attenta. (...)  

 

«Con gli orchi ce la facciamo» sentenziò Fra, interpretando il pensiero dei compagni. «Sono fatti di carne e sangue come noi, no? E noi siamo ben armati» concluse, toccando l’arco che portava sulla schiena e la faretra piena di frecce. Alla cintura in cuoio, confezionata dalle abili mani di Marcus, portava una spada, così come i suoi fratelli. Teo era armato anche di una pesante ascia, difficile anche solo da sollevare, ma che lui sapeva usare con grande abilità. Angi teneva ben nascosti i suoi pugnali Almadir. Due coltelli, eredità di un antenato nano, che avevano una caratteristica molto speciale: (…).

  

In testa al gruppo, composto da una cinquantina di cavalieri, un possente roano grigio avanzava fiero. In sella, sempre più vicino, un uomo dal fisico imponente. Il mantello scarlatto dei cavalieri sollevato dal vento e sul petto un medaglione d’argento che riproduceva l’effigie di un drago. I riflessi dell’occhio di pietra nera della mostruosa creatura, brillarono al sole. E Nico non ebbe dubbi. Sollevò il braccio in gesto di saluto. (…)

 

Ormai mancavano poche decine di passi e Nico fu investito dallo sguardo a un tempo sorpreso e indagatore del nonno. All’improvviso si sentì confuso. E quando il Generale Giorgio Domenico Gregorio scese da cavallo con un’unica mossa decisa e si incamminò verso di lui, restò immobile a guardarlo con la mano ancora alzata e un saluto sospeso nell’aria.

  

«A Ovest», ripeté l'elfa Bruna, soppesando le parole, pensierosa. Nel lento succedersi delle stagioni della sua vita elfica, raramente aveva dato voce ai suoi pensieri; mai nessuno l’aveva udita pronunciare un giudizio sgarbato o fuor di misura e mai nessuno si era allontanato dalla sua presenza senza averne tratto un profondo conforto. Mïmmï, la chiamavano. In elfico, madre delle madri. Possedeva, tra gli altri, un dono raro: sapeva ascoltare, ascoltare con la mente e con il cuore. E il suo sorriso quieto era un balsamo per le ferite dell’anima.